Il colonnello mi aveva assoldato e ringraziandolo mi presentai puntuale all’adunata.
La missione era semplice: fotografare tutto ciò che fosse fotografabile. Una palestra intera.
Confidavo nella mia pazienza e nel mio arsenale: una macchina fotografica, un cavalletto, due luci e un drone acquistato da poco.
Il piano d’attacco prevedeva di conquistare subito le sale senza corsi fitness, per poi avanzare in maniera organizzata nella sala pesi, poi in reception, e infine nella sala per lo sfoltimento lipidico.
Nel pomeriggio invece era prevista una ritirata veloce nella sala danza per le foto allo staff.
Temperatura registrata: + infinito – Umidità percepita: morirai così
Il colonnello, che poi è un colonnello per davvero, mi dislocò nella stanza bianca in fondo al corridoio verde.
Un esercito di biciclette da spinning e tappeti per walking era disposto a testuggine nel centro della sala.
Purtroppo i miei sospetti erano fondati. C’erano specchi ovunque e il mio riflesso sarebbe apparso in tutte le foto.
Persi il contatto radio con il colonnello il quale aveva raggiunto velocemente l’avamposto più a sud, posizione strategica per la macchinetta del caffè.
Io invece ero solo, una bottiglietta d’acqua, una caramella alla liquirizia e due sole possibilità: o farmi il mazzo in post produzione per eliminare il mio riflesso ovunque, oppure alzare in volo tattico il mio Mavic e sorprendere tutti con nuove prospettive.
Optai per la seconda. Una scelta rischiosa, ma l’unica che mi avrebbe permesso di fare un buon lavoro e portare salvo e salvo il culo a casa.
La sala bianca in fondo al corridoio verde fu una grande conquista. Un cecchino di quota infallibile. Mi sentivo come Maverick in Top Gun, forse solo meno bello.
Gli orologi sincronizzati e il programma del colonnello mi condussero senza problemi nella sala più grande della palestra. Se non fosse per l’acqua finita e la caramella sciolta in tasca direi che le cose procedevano secondo i piani. Tutto sembrava andare nel verso giusto, almeno fino al Super Jump.
Le molle per saltare erano disposte ordinatamente all’interno della sala. Le tre pareti erano interamente occupate da specchi, mentre sul quarto lato una grande vetrata lasciava nudo il corridoio verde.
Accesi i motori, alzai il Mavic fischiettando “Take My Breath Away” e sorvolai le molle in perlustrazione, alla ricerca dell’appostamento migliore per scaricare interi caricatori di megapixel. I tappetini elastici ripresi dall’alto avrebbero fatto scena.
Uno scatto. Un altro. Poi un altro ancora. La battaglia sembrava vinta. Poi la fine. Non mia.
Ma del Mavic.
Dopo aver perso il contatto radio con il colonnello persi anche quello con il drone.
Il radiocomando mi abbandonò lasciando che il Mavic si schiantasse contro lo specchio per poi precipitare sul pavimento.
– May day … May day –
In quell’attimo oltre la maglietta bagnata di sudore e un’imprecazione fra i denti avevo due sole possibilità: o svenire sul posto, o svenire accanto al Mavic abbattuto da chissà quale nemico invisibile.
Nel mio corpo non vi erano più liquidi. Salivazione azzerata. Non bestemmiai. Mi limitai a raccogliere i pezzi del drone mentre il colonnello entrando mi chiamava a rapporto.
– problemi? –
– abbiamo perso il drone Signore –
– dobbiamo fare le foto allo staff –
Una strana aurea al profumo di “sti cazzi” aleggiava intorno al colonnello e alla sua risposta.
Ciò nonostante non mi scomposi, la sua risposta non mi turbò, non ne ebbe il tempo, perché dietro di lui, all’improvviso, apparve una strana creatura.
– lei è Marika, l’istruttrice di pilates, iniziamo con lei che tra un po’ deve andar via –
Marika. Sulla cinquantina. Capelli legati, occhi vispi, pantaloncini a forma di mutanda e un top dal quale due tette incredibili mi dichiararono guerra.
No, non mi piace Marika.
Sarà stata indubbiamente una bella donna ma un eccesso di chirurgia estetica la rende inguardabile, almeno ai miei occhi.
Sia chiaro, parlo dei miei gusti lasciando Marika al di fuori di ogni giudizio. Ognuno è libero di fare ciò che vuole, quando vuole, traendone il massimo del piacere.
Per quel che mi riguarda sono a favore della chirurgia estetica per fini medicali, terapeutici, quando necessaria alla ricostruzione. Sono favorevole alla chirurgia estetica per correggere un piccolo difetto, un naso, un orecchio a sventola, una tetta mai cresciuta, anche io per esempio mi rifarei il pisello.
Ma il ritocco è una cosa. La ricerca della perfezione è un’altra. La non accettazione del tempo che passa un’altra ancora.
Marika non aveva più nulla di umano. Gli occhi, lo sguardo, la bocca erano congelate in una maschera neutra incapace di trasmettere alcuna espressione.
Se rideva, parlava o eseguiva gli esercizi, la sua faccia era sempre la stessa, una statua di cera, un’espressione solidificata in un’età indefinita. Quelle tette talmente perfette che ti verrebbe voglia di non toccarle.
La perfezione non è di questo mondo. La bellezza stereotipata è un inganno che non lascia scampo. Canoni imposti da immaginari collettivi privi di qualsiasi fondatezza.
No, le donne rifatte come bambole di gomma non mi piacciono. Non le trovo eccitanti e a dirla tutta mi mettono anche un po’ in soggezione.
– non ti innamorare mi raccomando –
una voce femminile si levò nella sala, ma non mi accorsi che fu Marika a parlare
– come scusa? –
– non ti innamorare mi raccomando –
l’istruttrice di pilates mi parlava senza muovere la bocca, sembrava un ventriloquo. Mi spaventai.
– no no figurati – le risposi rifugiandomi dietro la Nikon – tra l’altro sarei anche allergico al lattice – però questo non glielo dissi.
– con me non avrai bisogno di Photoshop –
non risposi, parlarono per me una goccia di sudore e due di disagio.
Le scattai qualche foto, la salutai e mi smaterializzai nel giro di pochi secondi alla ricerca di Nemo, del colonnello e di un’infermeria da campo che valutasse le condizioni del mio drone.
Terminato il lavoro tornai a casa da mia moglie. Aveva già preparato la macchinetta del caffè.
Le diedi un bacio presi un biscotto e accesi il fuoco. Mi fermai lì. A guardarla. A guardarla in silenzio. Mentre lavava i piatti e cantava con un filo di voce per addormentare Edoardo.
Rimasi lì, appoggiato al frigorifero a mangiare il mio biscotto, sempre in silenzio, ad ammirare la bellezza imperfetta di mia moglie nella sua vestarella blu.
Ma l’idillio durò solo pochi istanti, giusto il tempo che la prima briciola di biscotto toccasse il pavimento pulito da poco.
Non potendo urlare fino a farmi sentire nella galleria del vento, mia moglie iniziò con la forza del pensiero a sprigionare un’armata di grida subsoniche non percettibili all’udito umano, ma che in me produssero gravi e prolungati scompensi psicofisici per diversi giorni.
Fortuna è pronto il caffè.